Presentazione della mostra al Centro culturale “Antonello da Serravalle”
Vittorio Veneto (TV) 1982
di Mario Ulliana*

Carlo De Roberto dispone del disegno come strumento espressivo naturale. E’ nato per il disegno: e poi il tempo, la cultura, la ricerca, un esercizio continuo assiduo appassionato hanno reso questo strumento sempre più raffinato, sempre più forte, sempre più penetrante, pur con la disinvoltura di una scrittura corrente, anzi – staremmo per dire – di una stenografia.
Attenzione, però, De Roberto non è mai un arrivato!
E’ stato ben detto di lui che le sue opere hanno la caratteristica di ”studi” mai in fondo terminati e conclusi, e rimessi sempre in discussione per nuove avventurose ricerche.
Anche per le tecniche espressive. Proteso alla più scarna semplicità, ma pregno di una grande carica emblematica, talvolta il segno si fa più esiguo, filiforme al limite di rottura: persino il pennino più minuzioso deve cedere a qualcosa di più sottilmente arcano, come per una acrobazia concertistica che arrivi a toccare registri acutissimi, oltre il rigo.
Talvolta l’immagine si decompone in macchie, sbavature, aloni che sfumano e si dilatano e si stemperano in china, acquerello, tempera, con nuove intuizioni e nuovi significati. Ma non è il colore che si aggiunge al segno in funzione decorativa, per campiture di tono locale. E’ il colore stesso che disegna e i rapporti tonali si realizzano nel momento stesso del disegno: così che la macchia ha riflessi di luminosità ed effetti di profondità.
Quello che è stato concepito intellettualmente ha realizzazione quasi automatica: il foglio è presto occupato per la rapidità del gesto, come il tracciato di una pista sicura che si dipana in scioltezza: con la mano in continuo nervoso movimento de Roberto crea situazioni formali e prospettiche, arruffate o distese, che esercitano un grande fascino e comunicano una sincera emozione.
Sono temi e partizioni di un componimento sinfonico in cui predominano i “presto” e gli “andanti con moto”, e che mantiene lo spettatore in condizione di incessante aspettativa, rimandando e trasformando in continua zio nei punti di arrivo.
A ogni pausa si direbbe che egli si sia del tutto espresso e che l’animosi richiude di nuovo nel silenzio; ma ad ogni pausa l’evocazione si allarga, si fa più precisa e profonda, proprio come in una sinfonia l’arricchimento viene dalle riprese dei movimenti, dagli sviluppi e dalle variazioni sul tema, incessante nel suo costante variare.
In quei grovigli di fratte, di siepi, di alberi, di parchi è avvertibile la sensazione dell’olezzo (fresco, ombra, mistero), senza che l’artista debba ricorrere all’espediente del chiaroscuro o della ombreggiatura.
Anzi in quell’atmosfera incantata, dove l’accenno alle specie botaniche ha l’eleganza dei grafismi vegetali giapponesi e dove il virtuosismo del tratto può permettersi di rendere perfino l’effetto magico del gelo, della galaverna, macchie di luce sono ottenute addirittura con assenza di segno, in una progressiva riduzione all’essenzialità di certi idilli leopardiani.
Il paesaggio (al quale i profani danno spesso la preferenza rispetto ai temi cosiddetti astratti) è un’emozione, un momento di novità di situazioni tante volte magari abitualmente guardate, ma che solo in quell’attimo ci sorprendono; anch’esso è interpretato, deformando; tanto che a guardare bene non sembra neppure disegnato sul posto, ma piuttosto un traslato, una memoria della realtà. C’è un passo dello Zibaldone del Leopardi che ben si adatta a ciò: “ Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia se non desse alcuna rimembranza non è poetica punto a vederla. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, quel ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in un modo o in un altro,si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito e nel vago”.
Mai tanta ricchezza poetica è stata ottenuta con mezzi così disadorni.
Davanti a tanta capacità evocativa, diventa abbastanza banale sforzarsi di cogliere una menda di discontinuità stilistica e di incoerenza formale tra paesaggio identificabile e più accentuato astrattismo della figura umana.
A fronte del preminente interesse del ritmo compositivo, poco importa se quella insistenza “quasi ossessiva” sul tema del nudo femminile abbia un particolare contenuto. Si procede per accenni alla positura della figura umana: non occorre descriverla tutta, basta una nota allusiva che si leghi con le altre.
Come dire che da quel gioco di segni che captano pure forme spaziali si crea una proporzione per cui le donne stanno agli uomini come le membra aggrovigliate stanno al fogliame.

 

*Intellettuale di Vittorio Veneto, è stato sindaco della città e assessore regionale all’Urbanistica