Presentazione del catalogo della mostra “Carlo De Roberto – Disegni dal 1940 al 1954”
Galleria del Barbacan, Treviso 1983
di Giuseppe Mesirca*

Che i “vecchi” disegni di Carlo De Roberto, e intendiamo per “vecchi” quelli da ritenersi, se non i primi, gli esemplari più remoti nell’arco della sua lunga e assidua attività disegnativa, siano stati concepiti in un clima drammatico di enorme tensione spirituale, lo comprovano le date poste a pie’ dei fogli. Esse indicano, infatti, dal ’40 in su, gli ultimi anni del fascismo, che dopo illusori trionfi si prepara l’irreparabile e rovinosa debacle finale. Come dall’alto di un occulto osservatorio, De Roberto se ne stava allora assiso in una stanza di una modesta casa situata nei pressi di Porta S. Quaranta, ricolma di libri e di tutti quei ferri del mestiere, matite, penne, pennelli, inchiostri, tubetti di colore, fogli di carta, tele, tavole, ecc. che gli servivano per il suo lavoro in progress di grafico, di pittore e altresì di scrittore. Un Galileo nella solitudine di Arcetri, che messo da parte il telescopio per interrogare la notturna volta celeste, immobile nella sua poltrona, l’occhio vivo e pungente, raccoglieva e meditava i fatti dell’arte e della politica giunti a folate, come trasportati da un vento di tenpesta, alle sue finestre aperte sul corso d’acqua fluente di là della strada, con le prode erbose fiorite in estate di candide calle. Erano “anni di piombo”, ma resi sopportabili e spesso entusiasmanti per le grandi speranze della nostra giovinezza. E a Treviso avevo trovato la mia piccola patria ideale, alla quale volavo col batticuore ogni volta che m’era possibile, anche in divisa di sottotenente medico. Là mi potevo incontrare con gli amici più cari, Giovanni Comisso, Nevra Garatti, Juti Ravenna, Bepi Mazzotti, Ciro Cristofoletti, Nando Coletti, Carlo Conte, Nino Springolo e altri ancora, tutti scomparsi, col vuoto incolmabile che hanno lasciato. E proprio nel fatale 8 settembre del 1943 con Severino Dal Sasso m’ero recato a far visita a Gino Rossi nel suo esilio senza ritorno. Luogo privilegiato di quei miei fugaci approdi trevigiani, la stanza di De Roberto, una “camera magica” o meglio un alchemico laboratorio dove si captavano e si esperimentavano idee e propositi, sottoponendoli all’alambicco dell’intelligenza più aperta. Oltre ad occuparsi della grafica prediletta, de Roberto svolgeva nel contempo un’attività “manageriale” d’uomo di cultura dei più agguerriti. Signum, una delle tante riviste giovanili del periodo fascista, come Il Ventuno, Rivoluzione, Corrente, ch’egli redigeva, rispecchia appieno quel fervore d’iniziative artistiche e letterarie da lui promosse o invocate in quei pochi anni della sua esistenza, sotto l’assillo di sfuggire o di sme con manovre sapienti il pesante giogo del regime, intriso di retorica e di fatue esaltazioni. Fu in quella stanza, intorno al 1942, che conobbi il poeta Andrea Zanzotto, amico di De Roberto, sul cui enorme talento da poco sbocciato eravamo entrambi d’accordo quando ci faceva leggere o leggeva lui stesso le prime liriche composte su minuscoli fogli di taccuino. A testimonianza della deprimente condizione esistenziale sofferta Zanzotto in quegli anni bui ma così fervidi, trascrivo una “Cartolina postale per le forze armate” ch’egli mi scrisse da Ascoli Piceno il 7 settembre 1943, e porta stampata sul cartone verdino la seguente epigrafe dettata da Umberto di Savoia: “Audaci e tenaci, come sempre, da voi la Patria attende ancora più fulgida gloria”. Con molto minore entusiasmo, dice il soldato Andrea Zanzotto del 49° fanteria, compagnia provvisoria: “Caro Mesirca, i fatti politici sopravvenuti in questi ultimi tempi hanno naturalmente mandato a monte il mio progetto di pubblicazione presso Rivoluzione, che immagino sarà stata soppressa come tutti gli altri giornali universitari. Fin che la situazione non s’è chiarita credo che non sia più da pensare a cose serie; del resto la vita che conduco ora non mi permette di dedicarmi alla mia attività preferita. Vorrei tuttavia mandarti un racconto, pregandoti di presentarlo a qualche giornale: non saprei, ad esempio il Gazzettino, che ora è diretto da Diego Valeri, che probabilmente conoscerai. O non so, a qualche altro giornale o rivista. Vedi tu insomma. Ti manderò anche qualche poesia, anche per sentire il tuo giudizio. Rispondimi se ti è possibile aiutarmi nel senso che ho ora esposto. In seguito, a pace avvenuta, calcolerei di poter pubblicare presso il Cavallino. Che ne dici? Ricevi cordiali saluti e scusa le mie periodiche seccature”. Va chiarito che la fiorentina Rivoluzione curava una “collana” di volumi dedicati alle voci più libere e intense della nuova generazione letteraria, da Bo a Luzi, da Bilenchi a Vigorelli, da Parronchi a Tobino, Cassola, Delfini, ecc. In essa pubblicai nel 1941 il mio secondo libro di racconti: Un uomo solitario. Quanto al Cavallino, si tratta del nome di una nota Galleria d’Arte di Venezia, il cui proprietario, il collezionista Carlo Cardazzo, si dilettava di stampare di quando in quando rari testi poetici illustrati da famosi pittori. Ma tornando ai “vecchi” disegni di De Roberto, dopo questa non inutile digressione, ch’io vedevo nascere nella sua stanza impregnata di non so quale pathos leopardiano, dirò ch’egli vi riversa tutta la carica di una non comune cultura figurativa, imprimendovi peraltro il sigillo della sua personalità. Se il campo delle sue speculazioni grafiche è ristretto quasi esclusivamente all’immagine del nudo femminile, un leit-motiv che ricorrerà con insistenza, da diventare emblematico, negli anni successivi, pur su altri registri via via più acuti e atonali, sino a raggiungere le dissonanze di un puro astrattismo, come un passaggio da Mahler a Webern, vi è qui palese l’intento di conciliare il sottile gioco dei ritmi compositivi con un clima avviluppante d’ineffabile respiro. Le macchie morbide degli inchiostri dilagano a contrastare la luce, sino a sommergerla oppure a conferirle un risalto perentorio. Si potrebbe invocare certa temperie medianica diffusa in quegli anni dalla scuola romana”, di Mafai e Scipione, con escursioni nel territorio del Rembrandt disegnatore. Vi è in questi fascinosi ginecei fortemente chiaroscurati il proposito d’evadere dalle oppressive calamità del momento col rifugiarsi in smemoranti paradisi perduti e in assemblages infernali? O  non piuttosto, fermi restando con il piede nella storia, di fornire di essa un documento “diverso” ma altrettanto valido delle sue presenti e passate incongruenze?

 

*Medico condotto. Scrittore e saggista veneto, finalista al Premio Campiello del 1967